Ci sono luoghi al mondo che scompaiono lentamente, destinati ad esistere soltanto nella memoria collettiva. Quando questo accade, il passato può essere idealizzato da chi lo ricorda. Ciò che non esiste più assume un carattere quasi fiabesco, diventa magnifico. Con malinconia lo si racconta alle nuove generazioni, che cresceranno anche loro con l’idea che ieri era un luogo più giusto di oggi.

 

La zona del polo petrolchimico siracusano è uno di questi luoghi scomparsi dove il passato fatica a riconciliarsi con il presente. I due tempi esistono in parallelo, senza mai incontrarsi. Gli abitanti di Augusta, Priolo, Melilli e Siracusa vivono così a cavallo tra la loro storia ed il loro presente. Sentendosi inesorabilmente vittime della loro condizione attuale, tutto attorno a loro contribuisce alla idealizzazione di ieri ed allo sconforto per il futuro, sempre incerto.

 

Il triangolo della morte. Così ormai viene soprannominata l’area che si estende lungo la costa sud orientale della Sicilia e che nell’immediato dopoguerra è stata teatro di uno sviluppo industriale architettato nel dettaglio per essere impressionante agli occhi di tutta l’Italia e del mondo occidentale. Il polo petrolchimico che ne è derivato doveva servire da esempio al resto del mondo più sviluppato, un messaggio forte e chiaro di quanto l’Italia potesse concorrere con le grandi potenze industriali dell’epoca.

 

La sfida è stata quella di rendere il paese autonomo nell’estrazione, lavorazione ed esportazione del petrolio, e di fare tutto questo nella regione tra le più povere d’Italia: la Sicilia. Una sfida superata con successo, ed accolta con entusiasmo da investitori e lavoratori. Nessuno aveva previsto che l’euforia si sarebbe trasformata in sofferenza, disillusione, rabbia ed impotenza anni dopo. Se non fosse per le documentazioni passate che con toni tipici dell’era post-fascista acclamano la nascente industria in Sicilia, sarebbe impossibile credere che questi luoghi abbiano visto tempi così sereni.

 

La zona intera è vittima di una dicotomia ormai strutturata: da un lato la consapevolezza che senza quelle industrie non ci sarebbe stata via d’uscita da disoccupazione, povertà, fame, ignoranza e paura. Dall’altro, la certezza che proprio quelle industrie e la loro gestione corrotta, miope ed insaziabile, hanno fatto si che un intera sezione della Sicilia oggi viva nel terrore del cancro, delle malformazioni neo-natali, della ritornata disoccupazione, e della rabbia per essere stati grati ai propri aguzzini. Lo sviluppo industriale è stato per questi abitanti nulla più che un inganno.

 

Il contrasto che caratterizza questi luoghi è evidente anche ai sensi più immediati dell’osservatore estraneo. Il paesaggio naturale ha conservato la sua bellezza mediterranea, con le sue gradazioni di rosso, giallo e verde. Una vista pacifica, splendida. Ma anche interrotta dai giganti grigi di metallo e ferro, dal fumo nero che rilasciano nell’aria, e dal puzzo insostenibile del greggio bruciato. L’acqua del mare, in alcune zone costiere vicine alle industrie, è schiumosa e rossa. Tutto dà contezza di come quel passato, seppur povero di risorse economiche, è stato intossicato dallo sviluppo.

 

Il polo petrolchimico siracusano è stato un’impresa titanica, accolta dai suoi imprenditori con lo stesso fervore con cui il mondo accolse lo sbarco sulla luna, con la stessa certezza che quel traguardo avrebbe segnato una nuova era di rinascita. Sono le generazioni attuali a dirci quale sia stato il vero costo di quel progresso.

"Uomini e donne che si avviano verso un lavoro sicuro per un domani sereno"

"Oggi si affacciano alla mia memoria quegli anni che possiamo considerare lontani, dell’immediato dopoguerra, quando nessuno credeva nelle reali possibilità dei nostri sottosuolo.", cominciava così il suo discorso l’allora presidente dell’ENI Enrico Mattei il 27 Ottobre 1962 a Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna, di fronte ad una folla di siciliani piena di speranza per il futuro industriale della loro terra.

 

Quel comizio sarebbe stato ricordato poche ore dopo come l’ultimo discorso di Mattei. L’aereo privato su cui viaggiava e che doveva portarlo da Catania a Milano insieme al pilota Imerio Bertuzzi e al giornalista statunitense di Time-Life William McHale, esplode e precipita quel pomeriggio nelle campagne di Bascapè.

 

Le circostanze della sua morte improvvisa sono sospette, e alimentano supposizioni su un possibile attentato ed assassinio architettato vuoi dalla Mafia siciliana, vuoi dai servizi segreti americani, al punto da far includere ben presto il caso Mattei nella categoria dei misteri italiani.

 

Lo stesso Mattei che aveva fortemente voluto la nazionalizzazione del petrolio in Italia, rompendo di fatto gli equilibri fino ad allora indiscussi del cartello denominato Consorzio dell’Iran, formato dalle sette compagnie che controllavano la produzione petrolifera mondiale, da lui stesso denominate le Sette Sorelle.

 

Fu Mattei ad immaginare che il sottosuolo siciliano potesse essere ricco di materie prime, soprattutto petrolio. Nel suo celebre discorso pubblico del '62 faceva infatti riferimento all’idea, allettante per i siciliani reduci da anni di emarginazione economica e sociale, che la Sicilia fosse "una terra che conserva beni nascosti". Uno sviluppo possibile quindi, soprattutto autonomo e tutto da scoprire.

 

Dopo avere ottenuto i permessi necessari ad effettuare esplorazioni nei sottosuoli siciliani, nel 1956 l'ENI rinviene il petrolio a Gela. Sono questi gli anni in cui la figura di Mattei e quella di un altro personaggio decisivo per lo sviluppo industriale siciliano, Angelo Moratti, si incrociano. Spinto da una capacità immaginativa simile a quella di Mattei, Moratti fonda la prima raffineria tutta italiana nel 1948: la Rasiom, acronimo di Raffineria siciliana olii minerali, costituita insieme a Falck.

 

Per la sede della raffineria Moratti sceglie la Sicilia, e più precisamente Augusta.

La Regione gode infatti di una posizione strategica nel Mediterraneo, si trova sulla rotta del petrolio mediorientale, il costo della manodopera è tra i più bassi nel paese, e la cittadina di Augusta è dotata di una baia riparata così come di una grande base militare con attrezzature preziose per l’impresa di Moratti.

 

Con la Rasiom inizia ufficialmente il percorso che nel giro di circa 70 anni ha visto la Sicilia orientale passare da area esclusivamente agricola a sede di uno dei poli petrolchimici più grandi d’Europa. Moratti uscirà di scena nel 1962, lo stesso anno del discorso pubblico di Mattei nell’ennese, quando la Esso, fino ad allora il maggior cliente della raffineria, acquista la Rasiom.

 

Da quel momento, il processo di industrializzazione sembra scorrere velocemente, con il culmine agli inizi degli anni ’70 e la costruzione quasi a catena di Montedison, centrale termoelettrica Enel, impianto di gassificazione Erg, ed infine la raffineria ISAB per la cui costruzione nel 1979 un intero paese viene demolito: Marina di Melilli che, come Mattei, è stata protagonista di un mistero tutt’oggi irrisolto. Il suo ultimo abitante, Salvatore Gurreri, che rifiuta di lasciare la propria casa rimanendo di fatto nel paese e circondato dai giganti industriali, viene brutalmente assassinato nel 1992.

 

Già alla fine degli anni ’70 tuttavia gli stabilimenti iniziano a confrontarsi con la concorrenza sempre maggiore di nuovi paesi produttori, come Cina e India, che offrono prezzi più bassi. Gradualmente, la zona del petrolchimico siracusano ripiomba nell’incubo della disoccupazione, della emigrazione giovanile e del tasso spaventosamente alto di morti per tumore, a causa di una coscienza ecologica del tutto assente negli anni d’oro del mercato petrolifero italiano e della gestione spesso corrotta ed incontrollata delle industrie via via sorte nella zona. Un passato splendente quindi, culminato in una condizione oggi di disillusione, rabbia e paura.

 

Come ha fatto un’area che aveva così tante potenzialità a ricadere nel fallimento economico in tempi così brevi? Perché le industrie hanno potuto operare indisturbate dal monitoraggio legale? Perché un’intera area della Sicilia muore lentamente avvolta dal silenzio? Enrico Mattei è stato veramente ucciso? Quale il collegamento tra la sua morte e il ruolo della Sicilia nel mercato petrolifero nazionale?

 

La storia non sembra dare risposta a questi interrogativi. Per gli abitanti del triangolo della morte rimane viva l’illusione di avere camminato sulla luna.

 

Gli abitanti di Augusta, Priolo Gargallo, Melilli e di tutti i paesi limitrofi alla zona industriale siciliana hanno una cosa in comune. E’ il loro modo di relazionarsi con la perdita di familiari e amici.

 

<<Mirabella Santo, pancreas. Mistretta Rosalia, polmoni. Montagna Agata, colon. Montagna Ermelinda, midollo osseo. Morello Attilio, colon. Morello Domenico, prostata. Morello Enzo, non specificato. Morello Massimiliano, melanoma. >>, questi solo alcuni dei nomi dei morti per cancro che gli augustani leggevano per le strade il 26 Aprile 2016 durante una manifestazione di denuncia.

 

Pacificamente ma con fermezza protestavano contro l’indifferenza dello Stato italiano al loro dolore. Un’indifferenza che si è resa complice di una storia al limite del paradossale, fatta di industrie che hanno riversato per anni e contro ogni limite legale sostanze tossiche negli stessi territori dove la gente vive, costruisce famiglie, si alimenta e respira.

 

Vogliono che queste industrie adesso si facciano carico delle proprie responsabilità, accumulate in settant’anni di sfruttamento del territorio, finanziando le bonifiche necessarie per recuperare il salvabile di una terra mortificata, risarcendo le famiglie affette da tumore o malformazioni congenite causate dall’inquinamento, o anche solo ammettendo il loro errore. Ma anche assicurando che i propri lavoratori siano protetti fornendo loro misure di sicurezza molto spesso inesistenti nonostante il lavoro industriale presenti alti rischi.

 

Padre Palmiro Prisutto è il portavoce di queste proteste, che organizza da molti anni ormai. Originario di Augusta, anche lui come tutti gli altri ha pianto la perdita di molti tra familiari e amici a causa del tumore e dell’inquinamento. <<Siamo vittime di un ricatto istituzionale. Vita e salute non sono merce di scambio.>>, dice Padre Palmiro di fronte ai cittadini, riferendosi al fatto che troppi di loro hanno sacrificato la propria salute e vita perché avere uno stipendio e sfamare una famiglia è più urgente di stare bene.

 

Secondo la Banca Mondiale, dal 1987 l’Italia è nella lista dei settantotto paesi del mondo ad economia avanzata. Volendo utilizzare un termine controverso, l’Italia con tutte le sue Regioni, è un paese pienamente “sviluppato”.

 

Il concetto di sviluppo adottato dalle Nazioni Unite è ampio, volto a sottolineare come il livello di progresso di un determinato paese non dipenda esclusivamente dal fattore economico e fiscale ma dalla concatenazione di diversi elementi. L’ONU parla infatti di “indice di sviluppo umano”, ovvero un mezzo comparativo che tiene conto dei livelli di istruzione, del reddito lordo procapite, e dell’aspettativa media di vita di una nazione. La vita media non viene contata soltanto in base al suo quantitativo, ma ne viene considerata anche la qualità. Quindi non soltanto “Quanto tempo vive in media un popolo?” ma anche “Come vive?”.

 

I comuni del polo industriale hanno un problema sia quantitativo che qualitativo. Molti, troppi se paragonati alla media nazionale, muoiono relativamente giovani e la qualità della loro vita è bassa. Il tasso di decessi per tumore, e di malformazioni congenite, è tra i più elevati in Italia.

 

Sono malattie professionali. Ad ammalarsi sono spesso gli uomini che hanno lavorato per anni all’interno delle raffinerie o delle altre industrie nel territorio. Salvatore D’Amico, di Augusta, ad esempio era soltanto un bambino quando Moratti metteva in pratica, gradualmente e con grande meticolosità, le sue speranze di portare il paese al passo con le altre potenze occidentali fondando la Rasiom. Era un bambino della nascente industrializzazione, uno dei primi corsisti della prima scuola professionale industriale della zona, il CIAPI di Priolo Gargallo, nel 1966. Salvatore comincia nelle officine meccaniche della Sincat, oggi Montedison, e vi resta per ventisette anni. Fino al 1996, quando si manifestano i primi scompensi allo stomaco. Dopo anni di analisi cliniche e malesseri, gli viene diagnosticato un carcinoma del colon retto nel 2013.

 

<<Vivo sempre con una domanda in testa: Quanto durerà?>>, racconta Salvatore nella sua casa ad Augusta. <<Dentro le fabbriche la vita era infernale, avevamo sempre timore che potessero verificarsi incidenti sul lavoro perché i dirigenti non si preoccupavano di fornirci le protezioni necessarie. Non avevamo scelta, il bisogno di lavorare era più forte della paura di ammalarci>>.

 

Ma sono anche malattie ambientali in senso più generico, perché ad essere affetti da tumore o malformazioni congenite sono anche gli uomini, le donne ed i bambini che non hanno direttamente prestato servizio per le industrie. Per anni gli abitanti di questi comuni sono stati a contatto diretto con un veleno che si è annidato nella loro aria, nei loro campi coltivati, e nell’acqua che consumano. E’ un veleno diffuso che non si può sfuggire.

 

I paesi sono circondati dalle raffinerie, dagli impianti e dalle centrali che rilasciano nell’atmosfera, nel terreno, e nell’acqua sostanze altamente tossiche. Le normative prevedono una distanza minima di sicurezza tra industrie e centri abitati per salvaguardare la salute pubblica. Ma queste industrie sono state fondate e messe in piedi quando ancora l’Italia era ben lontana dal produrre una normativa ambientale. Così gli agglomerati industriali sono troppo vicini ai comuni.

 

<<Mia madre mi racconta che un giorno, durante il suo terzo mese di gravidanza, ha sentito una forte esplosione e visto del fumo nero circondare la nostra casa a Priolo. Si è poi scoperto che quel fumo proveniva dall’esplosione di due petroliere che rilasciarono nell’aria circa 4,500 metri cubi di greggio bruciato, ovvero idrocarburi policiclici. Mia madre ne ha inalato grandi quantità per giorni. Io sono nata sei mesi dopo, e subito mi hanno operata per spina bifida>> racconta Giusy Chiaramonte, originaria di Priolo Gargallo ma trasferitasi a Città Giardino con il marito e i figli per allontanarsi dall’inquinamento prodotto lì dai siti Isab Nord e Isab Sud dello stabilimento di proprietà della Lukoil, sequestrati dalla Procura di Siracusa a Luglio 2017. Giusy è affetta da mielomeningocele, una malformazione congenita del midollo spinale che può causare gravi disfunzioni neurologiche, come paralisi agli arti inferiori, atrofia dei muscoli, e meningite. Oggi conduce una battaglia giornaliera di sensibilizzazione e chiede che le industrie locali eseguano le bonifiche del territorio che hanno sfruttato per anni. <<Non è un risarcimento economico che voglio perché non sarà il denaro a restituirmi la salute. Quello che pretendo da questi colossi dell’inquinamento è che ci restituiscano la terra, per me e soprattutto per il futuro dei miei figli>>.

 

Ad effettuare studi specifici proprio sulle condizioni di questo territorio, e in particolar modo dei fondali della rada di Augusta, è stata nel 2003 la D.ssa Mara Nicotra, ricercatrice in ecologia e biologia marina, su commissione del Comune di Melilli.

 

<<Prima del decreto 152 del 1999 sul trattamento delle acque reflue urbane e la protezione delle acque da inquinamento, e a causa dell’assenza di un monitoraggio ufficiale, le industrie dislocate nel nostro territorio hanno scaricato nel nostro mare indisturbate per cinquant’anni di industrializzazione selvaggia, trattandolo come un serbatoio. Sapevamo bene che le nostre acque erano inquinate da metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, e altre sostanze tossiche, ma nessuno studio consistente era stato commissionato per quantificare questo inquinamento e soprattutto per analizzare se ci fosse una correlazione con l’attività industriale>>, spiega la D.ssa Nicotra.

 

Lo studio condotto nel 2003 ha permesso alla D.ssa Nicotra di riscontrare concentrazioni di mercurio molto elevate, così come di arsenico, nei fondali della rada di Augusta. Quantitativi chiaramente tossici per la salute delle popolazioni che per anni hanno consumato il pesce pescato in quelle stesse acque.

 

<<Prima che iniziassi lo studio sulla rada, alcuni abitanti della zona allarmati mi hanno mostrato le colonne vertebrali di alcuni pesci che avevano comprato ad Augusta e cucinato. Alcune presentavano una forma a ipsilon, altre bifida, altre ancora era particolarmente spesse. Insomma, erano del tutto deformi. Non ci volle molto a collegare quelle deformazioni all’inquinamento industriale.>>, racconta Mara Nicotra.

 

Grazie al suo studio, e alle indagini della procura di Siracusa che confermavano i suoi risultati, nel 2005 il Ministero dell’Ambiente stanzia i primi fondi necessari alla bonifica della rada di Augusta. Le industrie rifiutano però di versare la loro quota, prevista dal Ministero in quanto complici dirette di quell’inquinamento irresponsabile. La bonifica viene infine bloccata dalla stessa procura di Siracusa perché ritenuta “pericolosa”. <<La procura disse che i metodi di dragaggio a nostra disposizione non erano eco-sostenibili, e che per questo una bonifica rischiava di far risalire dai fondali sostanze accumulate negli anni e dannose per la catena alimentare e l’ambiente acquatico.>>, ricorda Mara Nicotra.

 

Oggi chi abita quei comuni vive a metà e sente di non contare per il proprio paese, aspettando il momento in cui anche loro forse spariranno. <<Forse un giorno come per Marina di Melilli si racconterà questa storia: c’era una volta Augusta.>>, recita uno degli striscioni della manifestazione cittadina del 28 Aprile 2016 organizzata da Padre Palmiro Prisutto.

 

Ci sono luoghi al mondo che scompaiono lentamente, nel silenzio. I luoghi del polo petrolchimico siracusano rischiano di sparire tutti i giorni, ma la loro gente ha ancora molto da raccontare. Nelle loro lotte resta viva la dignità di una parte della Sicilia sbiadita. E’ così che continuano a camminare sulla luna.

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